di Donato Bonanni
Le recenti statistiche (e il Rapporto Anvur 2023) relative all’andamento dell’istruzione universitaria in Italia, evidenziano come nel nostro paese esista una “barriera naturale” all’accesso allo studio accademico.
In particolare, è presente una forte disuguaglianza sociale derivante da problemi legati ai costi e alle modalità di ingresso, che si ripercuote sulle opportunità e sul futuro lavorativo di tanti giovani (e non), con un divario geografico che ha continuato ad aumentare nel corso dell’ultimo decennio a svantaggio delle regioni del Sud. Di fronte a questi ostacoli e alle disuguaglianze territoriali e sociali, le università digitali (ormai consolidate) possono rappresentare una soluzione dinamica e intelligente, in grado di coniugare diritto allo studio e qualità della didattica, facilitando il percorso (attraverso strumenti flessibili e servizi innovativi che garantiscono una didattica online perfettamente in linea con le esigenze personali) anche alle categorie poco agevolate, come gli studenti-lavoratori e i lavoratori-studenti, che difficilmente riuscirebbero a concludere gli studi e a laurearsi negli atenei tradizionali.
Il mondo universitario telematico offre, insomma, la possibilità di studiare a chi non ha i mezzi per spostarsi in una città universitaria e anche a chi lavora, riducendo notevolmente i costi sia in termini economici che umani. Non sono da trascurare, però, gli altri punti di forza delle università digitali. Pensiamo ai diversi vantaggi ambientali che questi contenitori dell’e-learning offrono, rispondendo pienamente ai punti-chiave della transizione ecologica: il contenimento dell’inquinamento atmosferico derivato dalla riduzione degli spostamenti, l’eliminazione dell’utilizzo della carta e la riduzione del consumo di energia. Purtroppo, le innovazioni tecnologiche nella formazione e quelle introdotte in altri settori fondamentali della nostra economia vengono considerate un macigno da una parte considerevole della sfera politica: quest’ultima, nel rispondere in toto al potere immenso delle baronie accademiche statali, ostacola la crescita del sistema universitario telematico. Pensiamo, ad esempio, alla proposta insensata e penalizzante di costringere le università digitali ad avere lo stesso rapporto tra studenti e docenti, come se le modalità di studio e di insegnamento fossero identiche tra il modello universitario tradizionale e quello digitale. Ma, soprattutto, come potrebbero mantenersi le università telematiche, se dovessero assumere un numero considerevole di docenti? Non mi pare che nelle casse degli atenei digitali entrino soldi pubblici: vivono solo di rette garantite dagli studenti che vogliono un’università più libera, più aperta, più competitiva, più inclusiva e più accessibile.